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C. COLLODI
Le
Avventure
di
Pinocchio
Storia di un burattino
illustrata
da
CARLO CHIOSTRI
Incisioni di A. BONGINI
Nuova edizione
FIRENZE
R. Bemporad & Figlio — Editori.
PROPRIETÀ LETTERARIA
DEGLI EDITORI R. BEMPORAD & FIGLIO
12 — 1902. — Tip. di V. Sieni, Corso de' Tintori, Firenze.
I.
Come andò che Maestro Ciliegia, falegname trovò un pezzo di legno che
piangeva e rideva come un bambino.
— C'era una volta....
— Un re! — diranno subito i miei piccoli lettori.
— No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli
che d'inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il
fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo
di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva
nome mastr'Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia,
per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza,
come una ciliegia matura.
[Illustrazione: .... sentì una vocina sottile sottile.]
Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò
tutto; e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a
mezza voce:
— Questo legno è capitato a tempo; voglio servirmene per fare una gamba
di tavolino. —
Detto fatto, prese subito l'ascia arrotata per cominciare a levargli la
scorza e a digrossarlo; ma quando fu lì per lasciare andare la prima
asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perchè sentì una vocina
sottile sottile, che disse raccomandandosi:
— Non mi picchiar tanto forte! —
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!
Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai
poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il
banco, e nessuno: guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e
nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno;
aprì l'uscio di bottega per dare un'occhiata anche sulla strada, e
nessuno. O dunque?...
— Ho capito; — disse allora ridendo e grattandosi la parrucca —
si vede che quella vocina me la son figurata io. Rimettiamoci a
lavorare. —
E ripresa l'ascia in mano, tirò giù un solennissimo colpo sul pezzo di
legno.
— Ohi! tu m'hai fatto male! — gridò rammaricandosi la solita vocina.
Questa volta maestro Ciliegia restò di stucco, cogli occhi fuori del
capo per la paura, colla bocca spalancata e colla lingua giù ciondoloni
fino al mento, come un mascherone da fontana.
Appena riebbe l'uso della parola, cominciò a dire tremando e
balbettando dallo spavento:
— Ma di dove sarà uscita questa vocina che ha detto ohi?... Eppure qui
non c'è anima viva. Che sia per caso questo pezzo di legno che abbia
imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino? Io non lo posso
credere. Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno da caminetto,
come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c'è da far bollire una
pentola di fagioli.... O dunque? Che ci sia nascosto dentro qualcuno?
Se c'è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l'accomodo
io! —
E così dicendo, agguantò con tutt'e due le mani quel povero pezzo di
legno, e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della
stanza.
Poi si messe in ascolto, per sentire se c'era qualche vocina che si
lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci
minuti, e nulla!
— Ho capito — disse allora sforzandosi di ridere e arruffandosi la
parrucca — si vede che quella vocina che ha detto _ohi_, me la son
figurata io! Rimettiamoci a lavorare. —
E perchè gli era entrato addosso una gran paura, si provò a
canterellare per farsi un po' di coraggio.
Intanto, posata da una parte l'ascia, prese in mano la pialla, per
piallare e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo
piallava in su e in giù, sentì la solita vocina che gli disse ridendo:
— Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo! —
Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giù come fulminato.
Quando riaprì gli occhi, si trovò seduto per terra.
Il suo viso pareva trasfigurito, e perfino la punta del naso, di
paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran
paura.
II.
Maestro Ciliegia regala il pezzo di legno al suo amico Geppetto, il
quale lo prende per fabbricarsi un burattino maraviglioso, che sappia
ballare, tirar di scherma e fare i salti mortali.
In quel punto fu bussato alla porta.
— Passate pure, — disse il falegname, senza aver la forza di rizzarsi
in piedi.
[Illustrazione: Un vecchietto tutto arzillo, il quale aveva
nome Geppetto.]
Allora entrò in bottega un vecchietto tutto arzillo, il quale aveva
nome Geppetto; ma i ragazzi del vicinato, quando lo volevano far
montare su tutte le furie, lo chiamavano col soprannome di Polendina,
a motivo della sua parrucca gialla, che somigliava moltissimo alla
polendina di granturco.
Geppetto era bizzosissimo. Guai a chiamarlo Polendina! Diventava subito
una bestia, e non c'era più verso di tenerlo.
— Buon giorno, mastr'Antonio, — disse Geppetto. — Che cosa fate costì
per terra?
— Insegno l'abbaco alle formicole.
— Buon pro vi faccia.
— Chi vi ha portato da me, compar Geppetto?
— Le gambe. Sappiate, mastr'Antonio, che son venuto da voi, per
chiedervi un favore.
— Eccomi qui, pronto a servirvi, — replicò il falegname rizzandosi su
i ginocchi.
— Stamani m'è piovuta nel cervello un'idea.
— Sentiamola.
— Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno: ma un
burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirar di scherma e fare
i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per
buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino: che ve ne pare?
— Bravo Polendina! — gridò la solita vocina, che non si capiva di dove
uscisse.
A sentirsi chiamar Polendina, compar Geppetto diventò rosso come
un peperone dalla bizza, e voltandosi verso il falegname, gli disse
imbestialito:
— Perchè mi offendete?
— Chi vi offende?
— Mi avete detto Polendina!
— Non sono stato io.
— Sta' un po' a vedere che sarò stato io! Io dico che siete stato voi.
— No!
— Sì!
— No!
— Sì! —
E riscaldandosi sempre più, vennero dalle parole ai fatti,
e acciuffatisi fra di loro, si graffiarono, si morsero e si
sbertucciarono.
Finito il combattimento, mastr'Antonio si trovò fra le mani la parrucca
gialla di Geppetto, e Geppetto si accòrse di avere in bocca la parrucca
brizzolata del falegname.
— Rendimi la mia parrucca! — gridò mastr'Antonio.
— E tu rendimi la mia, e rifacciamo la pace. —
I due vecchietti, dopo aver ripreso ognuno di loro la propria parrucca,
si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la
vita.
— Dunque, compar Geppetto, — disse il falegname in segno di pace fatta
— qual è il piacere che volete da me?
— Vorrei un po' di legno per fabbricare il mio burattino; me lo
date? —
Mastr'Antonio, tutto contento, andò subito a prendere sul banco quel
pezzo del legno che era stato cagione a lui di tante paure. Ma quando
fu lì per consegnarlo all'amico, il pezzo di legno dette uno scossone,
e sgusciandogli violentemente dalle mani, andò a battere con forza
negli stinchi impresciuttiti del povero Geppetto.
— Ah! gli è con questo bel garbo, mastr'Antonio, che voi regalate la
vostra roba? M'avete quasi azzoppito!...
— Vi giuro che non sono stato io!
— Allora sarò stato io!...
— La colpa è tutta di questo legno....
— Lo so che è del legno: ma siete voi che me l'avete tirato nelle gambe!
— Io non ve l'ho tirato!
— Bugiardo!
— Geppetto, non mi offendete: se no vi chiamo Polendina!...
— Asino!
— Polendina!
— Somaro!
— Polendina!
— Brutto scimmiotto!
— Polendina! —
A sentirsi chiamar Polendina per la terza volta, Geppetto perse il lume
degli occhi, si avventò sul falegname e lì se ne dettero un sacco e una
sporta.
A battaglia finita, mastr'Antonio si trovò due graffi di più sul naso,
e quell'altro due bottoni di meno al giubbetto. Pareggiati in questo
modo i loro conti, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni
amici per tutta la vita.
Intanto Geppetto prese con sè il suo bravo pezzo di legno, e
ringraziato mastr'Antonio, se ne tornò zoppicando a casa.
III.
Geppetto, tornato a casa, comincia subito a fabbricarsi il burattino e
gli mette il nome di Pinocchio. Prime monellerie del burattino.
La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che pigliava luce da un
sottoscala. La mobilia non poteva esser più semplice: una seggiola
cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella
parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; ma il fuoco
era dipinto, e accanto al fuoco c'era dipinta una pentola che bolliva
allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo
davvero.
Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a
intagliare e a fabbricare il suo burattino.
— Che nome gli metterò? — disse fra sè e sè. — Lo voglio chiamar
Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia
intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi
i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva
l'elemosina.
Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a
lavorare a buono, e gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli
occhi.
Fatti gli occhi, figuratevi la sua maraviglia quando si accòrse che gli
occhi si movevano e che lo guardavano fisso fisso.
[Illustrazione: Più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel
naso impertinente diventava lungo.]
Geppetto vedendosi guardare da quei due occhi di legno, se n'ebbe quasi
per male, e disse con accento risentito:
— Occhiacci di legno, perchè mi guardate? —
Nessuno rispose.
Allora, dopo gli occhi gli fece il naso; ma il naso, appena fatto,
cominciò a crescere: e cresci, cresci, cresci, diventò in pochi minuti
un nasone che non finiva mai.
Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma più lo ritagliava e
lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo.
Dopo il naso gli fece la bocca.
La bocca non era ancora finita di fare, che cominciò subito a ridere e
a canzonarlo.
— Smetti di ridere! — disse Geppetto impermalito; ma fu come dire al
muro.
— Smetti di ridere, ti ripeto! — urlò con voce minacciosa.
Allora la bocca smesse di ridere, ma cacciò fuori tutta la lingua.
Geppetto, per non guastare i fatti suoi, finse di non avvedersene, e
continuò a lavorare. Dopo la bocca gli fece il mento, poi il collo, poi
le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani.
Appena finite le mani, Geppetto sentì portarsi via la parrucca dal
capo. Si voltò in su, e che cosa vide? Vide la sua parrucca gialla in
mano del burattino.
— Pinocchio!... rendimi subito la mia parrucca! —
E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se la messe in capo per
sè, rimanendovi sotto mezzo affogato.
A quel garbo insolente e derisorio, Geppetto si fece tristo e
melanconico, come non era stato mai in vita sua: e voltandosi verso
Pinocchio, gli disse:
— Birba d'un figliuolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci a
mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male! —
[Illustrazione: E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca,
se la messe in capo per sè....]
E si rasciugò una lacrima.
Restavano sempre da fare le gambe e i piedi.
Quando Geppetto ebbe finito di fargli i piedi, sentì arrivarsi un
calcio sulla punta del naso.
— Me lo merito — disse allora fra sè. — Dovevo pensarci prima! Ormai è
tardi! —
Poi prese il burattino sotto le braccia e lo posò in terra, sul
pavimento della stanza, per farlo camminare.
Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva muoversi, e Geppetto
lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un passo dietro
l'altro.
[Illustrazione: — Piglialo! piglialo! — urlava Geppetto.]
Quando le gambe gli si furono sgranchite, Pinocchio cominciò a
camminare da sè e a correre per la stanza; finchè, infilata la porta di
casa, saltò nella strada e si dètte a scappare.
E il povero Geppetto a corrergli dietro senza poterlo raggiungere,
perchè quel birichino di Pinocchio andava a salti come una lepre, e
battendo i suoi piedi di legno sul lastrico della strada, faceva un
fracasso come venti paia di zoccoli da contadini.
— Piglialo! piglialo! — urlava Geppetto; ma la gente che era per la
via, vedendo questo burattino di legno, che correva come un barbero,
si fermava incantata a guardarlo, e rideva, rideva e rideva, da non
poterselo figurare.
Alla fine, e per buona fortuna, capitò un carabiniere il quale,
sentendo tutto quello schiamazzo, e credendo si trattasse di un puledro
che avesse levata la mano al padrone, si piantò coraggiosamente a gambe
larghe in mezzo alla strada, con l'animo risoluto di fermarlo e di
impedire il caso di maggiori disgrazie.
Ma Pinocchio, quando si avvide da lontano del carabiniere, che
barricava tutta la strada, s'ingegnò di passargli, per sorpresa,
framezzo alle gambe, e invece fece fiasco.
Il carabiniere, senza punto smuoversi lo acciuffò pulitamente per il
naso (era un nasone spropositato, che pareva fatto apposta per essere
acchiappato dai carabinieri) e lo riconsegnò nelle proprie mani di
Geppetto; il quale, a titolo di correzione, voleva dargli subito
una buona tiratina d'orecchi. Ma figuratevi come rimase, quando nel
cercargli gli orecchi non gli riuscì di poterli trovare: e sapete
perchè? perchè, nella furia di scolpirlo, si era dimenticato di
farglieli.
[Illustrazione: Lo acciuffò pulitamente per il naso....]
Allora lo prese per la collottola, e, mentre lo riconduceva indietro,
gli disse tentennando minacciosamente il capo:
— Andiamo subito a casa. Quando saremo a casa, non dubitare che faremo
i nostri conti! —
Pinocchio, a questa antifona, si buttò per terra, e non volle più
camminare. Intanto i curiosi e i bighelloni principiavano a fermarsi lì
dintorno e a far capannello.
Chi ne diceva una, chi un'altra.
— Povero burattino! — dicevano alcuni — ha ragione a non voler
tornare a casa! Chi lo sa come lo picchierebbe quell'omaccio di
Geppetto!... —
E gli altri soggiungevano malignamente:
— Quel Geppetto pare un galantuomo! ma è un vero tiranno, coi ragazzi!
Se gli lasciano quel povero burattino fra le mani, è capacissimo di
farlo a pezzi! —
Insomma, tanto dissero e tanto fecero, che il carabiniere rimesse in
libertà Pinocchio, e condusse in prigione quel pover'uomo di Geppetto.
Il quale non avendo parole lì per lì per difendersi, piangeva come un
vitellino, e nell'avviarsi verso il carcere, balbettava singhiozzando:
— Sciagurato figliuolo! E pensare che ho penato tanto a farlo
un burattino per bene! Ma mi sta il dovere! Dovevo pensarci
prima!... —
Quello che accadde dopo, è una storia così strana, da non potersi quasi
credere, e ve la racconterò in quest'altri capitoli.
IV.
La storia di Pinocchio col Grillo-parlante, dove si vede come i ragazzi
cattivi hanno a noja di sentirsi correggere da chi ne sa più di loro.
Vi dirò dunque, ragazzi, che mentre il povero Geppetto era condotto
senza sua colpa in prigione, quel monello di Pinocchio, rimasto libero
dalle grinfie del carabiniere, se la dava a gambe giù attraverso ai
campi, per far più presto a tornarsene a casa; e nella gran furia del
correre saltava greppi altissimi, siepi di pruni e fossi pieni d'acqua,
tale e quale come avrebbe potuto fare un capretto o un leprottino
inseguito dai cacciatori.
Giunto dinanzi a casa, trovò l'uscio di strada socchiuso. Lo spinse,
entrò dentro, e appena ebbe messo tanto di paletto, si gettò a sedere
per terra, lasciando andare un gran sospirone di contentezza.
Ma quella contentezza durò poco, perchè sentì nella stanza qualcuno che
fece:
— Crì-crì-crì!
— Chi è che mi chiama? — disse Pinocchio tutto impaurito.
— Sono io! —
Pinocchio si voltò, e vide un grosso grillo che saliva lentamente su su
per il muro.
— Dimmi, Grillo, e tu chi sei?
— Io sono il Grillo-parlante, e abito in questa stanza da più di
cent'anni.
— Oggi però questa stanza è mia, — disse il burattino — e se vuoi farmi
un vero piacere, vattene subito, senza nemmeno voltarti indietro.
— Io non me ne anderò di qui, — rispose il Grillo — se prima non ti
avrò detto una gran verità.
— Dimmela, e spicciati.
— Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori, e che
abbandonano capricciosamente la casa paterna. Non avranno mai bene in
questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente.
— Canta pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani,
all'alba, voglio andarmene di qui, perchè se rimango qui, avverrà a me
quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno
a scuola, e per amore o per forza mi toccherà a studiare; e io, a
dirtela in confidenza, di studiare non ho punta voglia e mi diverto più
a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere
gli uccellini di nido.
— Povero grullerello!... Ma non sai che, facendo così, diventerai da
grande un bellissimo somaro, e che tutti si piglieranno gioco di te?
— Chetati, grillaccio del mal'augurio! — gridò Pinocchio.
Ma il grillo, che era paziente e filosofo, invece di aversi a male di
questa impertinenza, continuò con lo stesso tono di voce:
— E se non ti garba di andare a scuola, perchè non impari almeno un
mestiere tanto da guadagnarti onestamente un pezzo di pane?
— Vuoi che te lo dica? — replicò Pinocchio, che cominciava a perdere
la pazienza. — Fra i mestieri del mondo non ce n'è che uno solo, che
veramente mi vada a genio.
— E questo mestiere sarebbe?
— Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi, e fare dalla mattina
alla sera la vita del vagabondo.
— Per tua regola — disse il Grillo-parlante con la sua solita calma —
tutti quelli che fanno codesto mestiere, finiscono quasi sempre allo
spedale o in prigione.
— Bada, grillaccio del mal'augurio!... se mi monta la bizza, guai a
te! —
— Povero Pinocchio: mi fai proprio compassione!...
— Perchè ti faccio compassione?
— Perchè sei un burattino e, quel che è peggio, perchè hai la testa di
legno. —
[Illustrazione: Preso di sul banco un martello di legno, lo
scagliò contro il Grillo-parlante.]
A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutt'infuriato, e preso di
sul banco un martello di legno, lo scagliò contro il Grillo-parlante.
Forse non credeva nemmeno di colpirlo; ma disgraziatamente lo colse per
l'appunto nel capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato
di fare _crì-crì-crì_, e poi rimase lì stecchito e appiccicato alla
parete.
V.
Pinocchio ha fame e cerca un uovo per farsi una frittata; ma sul più
bello, la frittata gli vola via dalla finestra.
Intanto cominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non
aveva mangiato nulla, sentì un'uggiolina allo stomaco, che somigliava
moltissimo all'appetito.
Ma l'appetito dei ragazzi cammina presto, e difatti, dopo pochi
minuti l'appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere si
convertì in una fame da lupi, in una fame da tagliarsi col coltello.
Il povero Pinocchio corse subito al focolare dove c'era una pentola che
bolliva, e fece l'atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse
dentro: ma la pentola era dipinta sul muro. Immaginatevi come restò. Il
suo naso, che era già lungo, gli diventò più lungo almeno quattro dita.
Allora si dètte a correre per la stanza e a frugare per tutte le
cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po' di pane, magari un
po' di pan secco, un crosterello, un osso avanzato al cane, un po' di
polenta muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma
qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio
nulla.
E intanto la fame cresceva, e cresceva sempre: e il povero Pinocchio
non aveva altro sollievo che quello di sbadigliare e faceva degli
sbadigli così lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli
orecchi. E dopo avere sbadigliato, sputava, e sentiva che lo stomaco
gli andava via.
Allora piangendo e disperandosi, diceva:
— Il Grillo-parlante aveva ragione. Ho fatto male a rivoltarmi al
mio babbo e a fuggire di casa.... Se il mio babbo fosse qui ora non
mi troverei a morire di sbadigli! Oh! che brutta malattia che è la
fame! —
Quand'ecco che gli parve di vedere nel monte della spazzatura qualche
cosa di tondo e di bianco, che somigliava tutto ad un uovo di gallina.
Spiccare un salto e gettarvisi sopra, fu un punto solo. Era un uovo
davvero.
La gioia del burattino è impossibile descriverla: bisogna sapersela
figurare. Credendo quasi che fosse un sogno, si rigirava quest'uovo fra
le mani, e lo toccava e lo baciava e baciandolo diceva:
— E ora come dovrò cuocerlo? Ne farò una frittata?... No, è meglio
cuocerlo nel piatto!... o non sarebbe più saporito se lo friggessi in
padella? O se invece lo cuocessi a uso uovo a bere? No, la più lesta
di tutte è di cuocerlo nel piatto o nel tegamino: ho troppa voglia di
mangiarmelo! —
Detto fatto, pose un tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa:
messe nel tegamino, invece d'olio o di burro, un po' d'acqua: e quando
l'acqua principiò a fumare, _tac!_... spezzò il guscio dell'uovo, e
fece l'atto di scodellarvelo dentro.
Ma invece della chiara e del torlo scappò fuori un pulcino tutto
allegro e complimentoso, il quale facendo una bella riverenza disse:
— Mille grazie, signor Pinocchio, d'avermi risparmiata la fatica di
rompere il guscio! Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa! —
Ciò detto, distese le ali, e, infilata la finestra che era aperta, se
ne volò via a perdita d'occhio.
Il povero burattino rimase lì, come incantato, cogli occhi fissi, colla
bocca aperta e coi gusci dell'uovo in mano. Riavutosi, peraltro, dal
primo sbigottimento, cominciò a piangere, a strillare, a battere i
piedi in terra per la disperazione, e piangendo diceva:
— Eppure il Grillo-parlante aveva ragione! Se non fossi scappato di
casa e se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di fame.
Eh! che brutta malattia che è la fame!... —
E perchè il corpo gli seguitava a brontolare più che mai, e non
sapeva come fare a chetarlo, pensò di uscir di casa e di dare una
scappata al paesello vicino, nella speranza di trovare qualche persona
caritatevole, che gli facesse l'elemosina di un po' di pane.
VI.
Pinocchio si addormenta coi piedi sul caldano, e la mattina dopo si
sveglia coi piedi tutti bruciati.
Per l'appunto era una nottataccia d'inferno. Tonava forte forte,
lampeggiava come se il cielo pigliasse fuoco, e un ventaccio freddo e
strapazzone, fischiando rabbiosamente e sollevando un immenso nuvolo di
polvere, faceva stridere e cigolare tutti gli alberi della campagna.
Pinocchio aveva una gran paura dei tuoni e dei lampi: se non che la
fame era più forte della paura: motivo per cui accostò l'uscio di casa,
e presa la carriera, in un centinaio di salti arrivò fino al paese,
colla lingua fuori e col fiato grosso, come un can da caccia.
Ma trovò tutto buio e tutto deserto. Le botteghe erano chiuse; le porte
di casa chiuse, le finestre chiuse, e nella strada nemmeno un cane.
Pareva il paese dei morti.
Allora Pinocchio, preso dalla disperazione e dalla fame, si attaccò al
campanello d'una casa, e cominciò a sonare a distesa, dicendo dentro di
sè:
— Qualcuno si affaccerà. —
Difatti si affacciò un vecchio, col berretto da notte in capo, il quale
gridò tutto stizzito:
— Che cosa volete a quest'ora?
[Illustrazione: Tornò a casa bagnato come un pulcino....]
— Che mi fareste il piacere di darmi un po' di pane?
— Aspettatemi costì che torno subito, — rispose il vecchino, credendo
di aver da fare con qualcuno di quei ragazzacci rompicolli che si
divertono di notte a sonare i campanelli delle case, per molestare la
gente per bene, che se la dorme tranquillamente.
Dopo mezzo minuto la finestra si riaprì, e la voce del solito vecchino
gridò a Pinocchio:
— Fàtti sotto e para il cappello. —
Pinocchio che non aveva ancora un cappello, si avvicinò e sentì
pioversi addosso un'enorme catinellata d'acqua che lo annaffiò tutto,
dalla testa ai piedi, come se fosse un vaso di giranio appassito.
Tornò a casa bagnato come un pulcino e rifinito dalla stanchezza e
dalla fame: e perchè non aveva più forza di reggersi ritto, si pose a
sedere, appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra un caldano
pieno di brace accesa.
E lì si addormentò; e nel dormire i piedi che erano di legno gli
presero fuoco, e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono
cenere.
E Pinocchio seguitava a dormire e a russare, come se i suoi piedi
fossero quelli d'un altro. Finalmente sul far del giorno si svegliò,
perchè qualcuno aveva bussato alla porta.
— Chi è? — domandò sbadigliando e stropicciandosi gli occhi.
— Sono io! — rispose una voce.
Quella voce era la voce di Geppetto.
VII.
Geppetto torna a casa, e dà al burattino la colazione che il pover'uomo
aveva portata per sè.
Il povero Pinocchio, che aveva sempre gli occhi fra il sonno, non
s'era ancora avvisto dei piedi che gli si erano tutti bruciati: per
cui appena sentì la voce di suo padre, schizzò giù dallo sgabello per
correre a tirare il paletto; ma invece, dopo due o tre traballoni,
cadde di picchio tutto lungo disteso sul pavimento.
E nel battere in terra fece lo stesso rumore, che avrebbe fatto un
sacco di mestoli, cascato da un quinto piano.
— Aprimi! — intanto gridava Geppetto dalla strada.
— Babbo mio, non posso.... — rispondeva il burattino piangendo e
ruzzolandosi per terra.
— Perchè non puoi?
— Perchè mi hanno mangiato i piedi.
— E chi te li ha mangiati?
— Il gatto — disse Pinocchio, vedendo il gatto che colle zampine
davanti si divertiva a far ballare alcuni trucioli di legno.
— Aprimi, ti dico! — ripetè Geppetto — se no, quando vengo in casa, il
gatto te lo do io!
— Non posso star ritto, credetelo. Oh! povero me! povero me, che mi
toccherà a camminare coi ginocchi per tutta la vita. —
[Illustrazione: Entrò in casa dalla finestra.]
Geppetto, credendo che tutti questi piagnistei fossero un'altra
monelleria del burattino, pensò bene di farla finita; e arrampicatosi
su per il muro, entrò in casa dalla finestra.
Da principio voleva dire e voleva fare; ma poi, quando vide il suo
Pinocchio sdraiato in terra e rimasto senza piedi davvero, allora sentì
intenerirsi; e presolo subito in collo si dette a baciarlo e a fargli
mille carezze e mille moine, e, coi lucciconi che gli cascavano giù per
le gote, gli disse singhiozzando:
— Pinocchiuccio mio! Com'è che ti sei bruciato i piedi?
— Non lo so, babbo, ma credetelo che è stata una nottata d'inferno,
e me ne ricorderò fin che campo. Tonava, balenava e io avevo una
gran fame, e allora il Grillo-parlante mi disse: «Ti sta bene: sei
stato cattivo e te lo meriti» e io gli dissi: «Bada, Grillo!...» e
lui mi disse: «Tu sei un burattino e hai la testa di legno» e io
gli tirai un manico di martello, e lui morì, ma la colpa fu sua,
perchè io non volevo ammazzarlo, prova ne sia, che messi un tegamino
sulla brace accesa del caldano, ma il pulcino scappò fuori e disse:
«Arrivedella,... e tanti saluti a casa.» E la fame cresceva sempre,
motivo per cui quel vecchino col berretto da notte, affacciandosi alla
finestra mi disse: «Fatti sotto e para il cappello» e io con quella
catinellata d'acqua sul capo, perchè il chiedere un po' di pane non è
vergogna, non è vero? me ne tornai subito a casa, e perchè avevo sempre
una gran fame, messi i piedi sul caldano per rasciugarmi, e voi siete
tornato, e me li sono trovati bruciati, e intanto la fame l'ho sempre
e i piedi non li ho più! ih!... ih!... ih!... ih!... —
E il povero Pinocchio cominciò a piangere e a berciare così forte, che
lo sentivano da cinque chilometri lontano.
Geppetto, che di tutto quel discorso arruffato aveva capito una cosa
sola, cioè che il burattino sentiva morirsi dalla gran fame, tirò fuori
di tasca tre pere, e porgendogliele, disse:
— Queste tre pere erano la mia colazione: ma io te le do volentieri.
Mangiale, e buon pro ti faccia.
— Se volete che le mangi, fatemi il piacere di sbucciarle.
— Sbucciarle? — replicò Geppetto meravigliato. — Non avrei mai creduto,
ragazzo mio, che tu fossi così boccuccia e così schizzinoso di palato.
Male! In questo mondo, fin da bambini, bisogna avvezzarsi abboccati e a
saper mangiar di tutto, perchè non si sa mai quel che ci può capitare.
I casi son tanti!...
— Voi direte bene, — soggiunse Pinocchio — ma io non mangerò mai una
frutta, che non sia sbucciata. Le bucce non le posso soffrire. —
E quel buon uomo di Geppetto, cavato fuori un coltellino, e armatosi
di santa pazienza, sbucciò le tre pere, e pose tutte le bucce sopra un
angolo della tavola.
Quando Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la prima pera, fece
l'atto di buttar via il torsolo; ma Geppetto gli trattenne il braccio
dicendogli:
— Non lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo.
— Ma io il torsolo non lo mangio davvero!... — gridò il burattino
rivoltandosi come una vipera.
— Chi lo sa! I casi son tanti!... — ripetè Geppetto, senza riscaldarsi.
Fatto sta che i tre torsoli, invece di essere gettati fuori dalla
finestra, vennero posati sull'angolo della tavola in compagnia delle
bucce.
Mangiate, o, per dir meglio, divorate le tre pere, Pinocchio fece un
lunghissimo sbadiglio e disse piagnucolando:
— Ho dell'altra fame!
— Ma io, ragazzo mio, non ho più nulla da darti.
— Proprio nulla, nulla?
— Ci avrei soltanto queste bucce e questi torsoli di pera.
— Pazienza! — disse Pinocchio — se non c'è altro, mangerò una
buccia. —
E cominciò a masticare. Da principio storse un po' la bocca: ma poi una
dietro l'altra, spolverò in un soffio tutte le bucce; e dopo le bucce
anche i torsoli, e quand'ebbe finito di mangiare ogni cosa, si battè
tutto contento le mani sul corpo, e disse gongolando:
— Ora sì, che sto bene!
— Vedi, dunque, — osservò Geppetto — che avevo ragione io, quando
ti dicevo che non bisogna avvezzarsi nè troppo sofistici nè troppo
delicati di palato. Caro mio, non si sa mai quel che ci può capitare in
questo mondo. I casi son tanti!... —
VIII.
Geppetto rifà i piedi a Pinocchio, e vende la propria casacca per
comprargli l'Abbecedario.
Il burattino, appena che si fu levata la fame, cominciò subito a
bofonchiare e a piangere, perchè voleva un paio di piedi nuovi.
[Illustrazione: Lo lasciò piangere e disperarsi per una mezza
giornata.]
Ma Geppetto, per punirlo della monelleria fatta, lo lasciò piangere e
disperarsi per una mezza giornata; poi gli disse:
— E perchè dovrei rifarti i piedi? Forse per vederti scappar di nuovo
da casa tua?
— Vi prometto — disse il burattino singhiozzando — che da oggi in poi
sarò buono....
— Tutti i ragazzi — replicò Geppetto — quando vogliono ottenere
qualcosa, dicono così.
— Vi prometto che anderò a scuola, studierò e mi farò onore....
— Tutti i ragazzi, quando vogliono ottenere qualcosa, ripetono la
medesima storia.
— Ma io non sono come gli altri ragazzi! Io sono più buono di tutti, e
dico sempre la verità. Vi prometto, babbo, che imparerò un'arte, e che
sarò la consolazione e il bastone della vostra vecchiaia. —
Geppetto che, sebbene facesse il viso di tiranno, aveva gli occhi pieni
di pianto e il cuore grosso dalla passione nel vedere il suo povero
Pinocchio in quello stato compassionevole, non rispose altre parole:
ma, presi in mano gli arnesi del mestiere e due pezzetti di legno
stagionato, si pose a lavorare di grandissimo impegno.
E in meno d'un'ora, i piedi erano bell'e fatti: due piedini svelti,
asciutti e nervosi, come se fossero modellati da un artista di genio.
Allora Geppetto disse al burattino:
— Chiudi gli occhi e dormi! —
E Pinocchio chiuse gli occhi e fece finta di dormire. E nel tempo
che si fingeva addormentato, Geppetto con un po' di colla sciolta
in un guscio d'uovo gli appiccicò i due piedi al loro posto, e
glieli appiccicò così bene, che non si vedeva nemmeno il segno
dell'attaccatura.
[Illustrazione: Principiò a fare mille sgambetti.]
Appena il burattino si accòrse di avere i piedi, saltò giù dalla
tavola dove stava disteso, e principiò a fare mille sgambetti e mille
capriole, come se fosse ammattito dalla gran contentezza.
— Per ricompensarvi di quanto avete fatto per me — disse Pinocchio al
suo babbo — voglio subito andare a scuola.
— Bravo ragazzo.
— Ma per andare a scuola ho bisogno d'un po' di vestito. —
[Illustrazione: Gli fece.... un berrettino di midolla di
pane.]
Geppetto, che era povero e non aveva in tasca nemmeno un centesimo,
gli fece allora un vestituccio di carta fiorita, un paio di scarpe di
scorza d'albero e un berrettino di midolla di pane.
Pinocchio corse subito a specchiarsi in una catinella piena d'acqua e
rimase così contento di sè, che disse pavoneggiandosi:
— Paio proprio un signore!
— Davvero; — replicò Geppetto — perchè, tienlo a mente, non è il
vestito bello che fa il signore, ma è piuttosto il vestito pulito.
— A proposito, — soggiunse il burattino — per andare alla scuola mi
manca sempre qualcosa: anzi mi manca il più e il meglio.
— Cioè?
— Mi manca l'Abbecedario.
— Hai ragione: ma come si fa per averlo?
— È facilissimo: si va da un libraio e si compra.
— E i quattrini?
— Io non ce l'ho.
— Nemmen io — soggiunse il buon vecchio, facendosi tristo.
E Pinocchio sebbene fosse un ragazzo allegrissimo, si fece tristo anche
lui: perchè la miseria, quando è miseria davvero, la intendono tutti:
anche i ragazzi.
— Pazienza! — gridò Geppetto tutt'a un tratto rizzandosi in piedi; e
infilatasi la vecchia casacca, di frustagno, tutta toppe e rimendi,
uscì correndo di casa.
Dopo poco tornò: e quando tornò, aveva in mano l'Abbecedario per il
figliuolo, ma la casacca non l'aveva più. Il pover'uomo era in maniche
di camicia, e fuori nevicava.
— E la casacca, babbo?
— L'ho venduta.
— Perchè l'avete venduta?
— Perchè mi faceva caldo. —
Pinocchio capì questa risposta a volo, e non potendo frenare l'impeto
del suo buon cuore, saltò al collo di Geppetto e cominciò a baciarlo
per tutto il viso.
IX.
Pinocchio vende l'Abbecedario per andare a vedere il teatro dei
burattini.
Smesso che fu di nevicare, Pinocchio, col suo bravo Abbecedario nuovo
sotto il braccio, prese la strada che menava alla scuola: e strada
facendo, fantasticava nel suo cervellino mille ragionamenti e mille
castelli in aria, uno più bello dell'altro.
E discorrendo da sè solo, diceva:
— Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi
imparerò a scrivere, e domani l'altro imparerò a fare i numeri. Poi,
colla mia abilità, guadagnerò molti quattrini e coi primi quattrini che
mi verranno in tasca, voglio subito fare al mio babbo una bella casacca
di panno. Ma che dico di panno? Gliela voglio fare tutta d'argento
e d'oro, e coi bottoni di brillanti. E quel pover'uomo se la merita
davvero; perchè insomma, per comprarmi i libri e per farmi istruire,
è rimasto in maniche di camicia.... a questi freddi! Non ci sono che i
babbi che sieno capaci di certi sacrifizi!... —